Torno dalla passeggiata che faccio nella prima mattinata, prima che il sole diventi troppo inclemente e la temperatura troppo pericolosa e, entrato nel cortile, riconosco la solita sagoma di Koffi. E’ seduto su un banco di cemento del cortile e con i gomiti si appoggia alla tavola, sempre in cemento, mi dà le spalle e guarda un punto fisso all’orizzonte. Koffi è uno degli abitanti del cortile della parrocchia, non passa giorno che non venga per qualche oretta a riposare nel cortile. Arriva con la sua andatura goffa, la sua scodella spesso piena di cibo e il boccale di plastica per elemosinare qualche moneta, l’acqua e, se capita, un po’ di birra. Il suo abbigliamento è sempre un po’ casual: quello che è stato elemosinato a destra e manca e che gli è stato messo da chi lo lava. Non si sa che età possa avere Koffi… qualcuno dice che ormai è un po’ vecchio, diciamo che potrebbe avere trent’anni, ma l’anagrafe va in crisi per tanti ivoriani, figuriamoci per uno come lui che vive in uno stato d’abbandono.
Una volta mi sono interessato per capire la sua condizione famigliare e avevo scoperto che la mamma lo aveva abbandonato scoprendo la disabilità del figlio, il padre è morto, come anche la nonna paterna che lo accudiva ed ora vive in una casa con lontani parenti che non sembrano preoccuparsi troppo di lui, ma forse nessuno si è mai troppo preoccupato di lui.
Eppure oggi la sua inconfondibile sagoma ha per compagna quella di Lucia seduta accanto a lui e questa immagine mi commuove subito. Lucia è una persona conosciuta a Boltiere, la prima della mia vecchia comunità che è venuta a trovarmi. Mi spiega che è infermiera e che ha passato tanti anni in neuro-psichiatria infantile dove ha potuto imparare il linguaggio aumentativo, un tipo di scrittura per immagini, che aiuta i disabili a esprimersi anche dove ci sono problemi di linguaggio.
“Pensa quante emozioni ha dentro questo ragazzo e come non riesca mai ad esprimerle” mi dice. Io mi rivolgo a Koffi che risponde con il suo tipico EEEEEEEH che va bene per ogni occasione. Lucia gli mostra qualcuna delle sue immagini e fantastica sulla possibilità di aiutarlo ad esprimersi. In lontananza un operaio che sta lavorando in Chiesa sghignazza come a dire che stiamo perdendo il nostro tempo interrogando un matto. Ma Lucia con spontaneità chiede: “hai una palla che giochiamo un po’?”. E quando arrivo con il pallone improvvisiamo una partita a pallone, un po’ con le mani, un po’ con i piedi, ma con Koffi che se la ride contento come non mai: finalmente qualcuno gioca con lui, finalmente qualcuno lo considera importante.
Nel pomeriggio trovo una comitiva di persone alla terrazza intente a parlare con Walter. Intanto Lucia e Elena, altra giovane volontaria arrivata da pochi giorni con Lucia, stanno attorno ad un bambino che è accasciato per terra. Mentre arrivo mi guarda con un po’ di sospetto, poi Lucia gonfia un palloncino e lo lascia andare, il bimbo segue con gli occhi il percorso frenetico e io imito il suo della pernacchia dell’aria che esce… e il piccolino si scioglie e comincia a ridere di gusto… Non parla, ma i parenti ci dicono che si chiama Baba e che ha sette anni, ma non ha mai camminato, però si sposta sulle ginocchia e si sostiene bene e sarebbe davvero bello se imparasse a camminare. La famiglia si accorda con Walter per una visita al centro di fisioterapia.
Nel frattempo porto un pallone e anche il piccolo Baba si diverte un mondo anche se non sempre riesce ad afferrare la palla con le braccia tanto scoordinate, ma dopo un po’ capiamo che ama molto prendere la palla con la testa e ogni volta è un sorriso meraviglioso che si dipinge sul suo volto. Ed in fondo mi basta questa giornata per ridirmi che, nonostante le fatiche, non manca tanta misteriosa bellezza che si nasconde nelle pieghe della vita, spesso proprio dove si pensava non ci fosse più speranza… ma a volte basta solo un pallone ed il sorriso di un bambino e gli occhi di qualche persona originale, come Lucia, che ti fanno vedere le cose da una nuova prospettiva.





