È strano vedere come l’arco della vita terrena di Gesù cominci e termini accompagnato da Giuseppe. Giuseppe è il padre silenzioso, ma presente, che gli dona il nome e la discendenza davidica. Giuseppe è uomo che non ama i riflettori, ma con umiltà e silenzio protegge Gesù e sua madre Maria. Un uomo di una fede incrollabile, marito di una donna sempre vergine e padre di un figlio che non sarà mai completamente suo, eppure non lesina mai amore senza rimpianti o rancori.
E se è di Giuseppe il privilegio di prendere per primo il corpo di Gesù tra le sue mani per consegnarlo nelle braccia dell’amata Maria, è ad un altro Giuseppe il compito di prendere per primo tra le sue braccia il corpo esanime di Gesù dopo la sua crocifissione. Si tratta di Giuseppe di Arimatea, uomo che intuiamo ricco, potente ed influente; un uomo che ha apprezzato profondamente Gesù, ma che ha sempre avuto vergogna di confessarlo pubblicamente, per paura del giudizio degli altri e per paura di perdere quel potere che il prestigio ti dona e che sarebbe stato irrimediabilmente macchiato dalla sequela di questo strano profeta della Galilea. Eppure, proprio nel momento della morte del suo amico, viene allo scoperto come uno dei personaggi più splendidi della passione. Lui che per tutta la vita aveva seguito Gesù di nascosto, seguendolo, ma con ostentata noncuranza, ascoltandolo, ma cercando sempre di celare il fuoco dell’entusiasmo che le sue parole gli risvegliavano. Ora quest’uomo viene allo scoperto, non ha più paura dei suoi compatrioti, non ha più paura del giudizio, non ha più paura dell’invasore romano e neppure del governatore, ma pubblicamente cerca di recuperare quello che in quel momento ha di più caro: il corpo del suo amato Gesù. E poco importa se non potrà celebrare la Pasqua a causa della contaminazione avvenuta per il contatto con un cadavere, la sua Pasqua è poter abbracciare e baciare un’ultima volta il suo amico morto. Ed il suo gesto non ha senso: perché prendersi cura di un cadavere inanimato? Eppure quel corpo messo con amore in una tomba diventa seme di una nuova resurrezione. Ed in fondo si tratta di un gesto folle e gratuito, come ogni gesto d’amore.
E penso proprio a Giuseppe mentre ci avviamo verso il cimitero per sistemare la tomba del mio piccolo Jean Baptiste, un bimbo disabile morto alcuni mesi fa a cinque anni. Con un po’ di presunzione, come Giuseppe, mi sono sentito padre, pur sapendo di non esserlo, di questo bimbo tanto fragile e tanto prezioso ed ho cercato di proteggerlo per quanto era possibile. Oggi mi sento, come l’altro Giuseppe, pronto a rendere un servizio tanto inutile, ma gratuito e sincero ad un bimbo che amo. La tomba altro non è che una croce di ferro che Walter aveva dipinto e un mucchio disordinato di terra che i becchini avevano gettato disordinatamente sul suo corpo. Elena, la volontaria che vive con noi da gennaio, ha pensato di poter creare un’aiuola con dei legnetti, Maria, un’amica di Boltiere che è in visita per la Pasqua, ha raccolto delle piante nel nostro giardino, Leon e Jaures, due giovani della parrocchia, fanno il lavoro sporco con pale e picconi. Infine io porto le birre, sia perché il sole africano batte forte e la sete ti prende subito, sia perché Jean Baptiste è africano e quando si scava una tomba si offre a Dio e agli antenati un bicchiere di una bevanda alcolica. In poco tempo la tomba è pronta e nella sua semplicità è molto bella. La morte in Africa è accompagnata da molti rituali, ma purtroppo non c’è una cura effettiva per la sepoltura dei morti e spesso i cimiteri sono luoghi disordinati e degradati. La nostra tomba dice, con semplicità, di una cura.
Ora bisogna mostrarla alla mamma e benedirla. E così un sabato mattina ci rechiamo insieme al cimitero, mamma Tehia porta con sé anche i fratelli di Jean Baptiste e le sue amiche Elodie e Suzanne con la piccola Divine che per l’occasione diventa seria e pensierosa come se capisse l’importanza del momento. La benedizione è un momento struggente, Tehia singhiozza ricordandosi del suo bimbo e di quanto la sua presenza sia stata benedizione per tanti e gli occhi di tutti si gonfiano di lacrime.
“Che Dio aggiunga” questo letteralmente è il significato del nome Giuseppe. Sicuramente siamo presi per folli perché ancora ci occupiamo di un bambino disabile ormai morto da mesi, un bimbo che non era degno di essere considerato umano dai suoi connazionali. Siamo p-resi per folli come quel Giuseppe di Arimatea, pronto a gettare alle ortiche la sua reputazione nel sinedrio per poter prendere tra le sue braccia il corpo senza vita di Gesù. E come Giuseppe ci troviamo di fronte ad una tomba che sembra la fine di una storia, ma che diventa inizio di nuove infinite possibilità e possiamo solo avere questa fiducia “che Dio aggiunga” e sperare che il Dio della vita continuerà ad aggiungerla dove l’amore è stato vissuto in tutta la sua folle inutilità.

